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NOV
02
COME È CRESCIUTO L’INDEBITAMENTO PRIVATO IN ITALIA
di Gianluigi Leone

Il nostro sistema finanziario, prima della sua progressiva “germanizzazione”, era basato (per vincolo costituzionale!) sulla tutela del risparmio. L’articolo 47 della Legge fondamentale dello Stato recita infatti: “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito. Favorisce l'accesso del risparmio popolare alla proprietà dell'abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese.” Si legge: “accesso del risparmio popolare (cioè dei cittadini italiani, ndr) alla proprietà dell’abitazione… e all’investimento nei grandi complessi produttivi” proprio perché l’obiettivo è la stabilità delle famiglie (non dei conti pubblici!) e la tutela del lavoro.

Con la rivoluzione liberista-europeista cambia clamorosamente, e senza alcuna discussione democratica, ogni paradigma in ambito economico-finanziario.

Cominciano negli anni ottanta radicali ristrutturazioni e successive liberalizzazioni del settore bancario all’insegna del principio della concorrenza bancaria. I capitoli scritti in questa direzione hanno sancito la progressiva riduzione della presenza pubblica nella proprietà delle banche italiane, con la solita scusa dell’integrazione dei mercati. Gli atti più significativi di questa rivoluzione sono rappresentati dalle liberalizzazioni dei movimenti di capitali (recepimento delle Direttive 566/1986 e 361/1988), dalla Legge 287/1990, a tutela della concorrenza bancaria, e dalla Legge 218/1990 (Legge Amato-Carli), che convertì le banche italiane da istituti di diritto pubblico in S.p.A..

Giova precisare che in precedenza il sistema bancario italiano era quasi interamente pubblico.

Il grafico in basso (tratto dall’”Annuario 1983”, Rizzoli Editore, Milano, 1983, pag. 220) fotografa la situazione nel 1982.

Le riforme citate ponevano le basi per l’attuazione di alcuni principi normativi successivamente fissati nel Trattato di Maastricht (e quindi divenuti preminenti rispetto a qualunque norma contraria, anche di rango costituzionale, in base al principio di preferenza): l’introduzione di un (inedito per l’Italia) regime di concorrenza in ogni ambito e settore dell’attività economica e finanziaria; e la libera circolazione di capitali, merci, servizi e persone in ambito comunitario (ed extracomunitario per quanto riguarda i trasferimenti di capitali).

È utile ricordare che in Italia, come in altri paesi, negli anni ’70, l’esportazione (o importazione) non autorizzata di capitali era considerata un illecito perseguibile penalmente. Le norme di riferimento erano contenute nella Legge 25 luglio 1956, n. 786 (in vigore fino al 1990).

Infine, la fallimentare istituzione di una moneta unica e di una banca centrale europea che avesse come fine dichiarato la stabilità dei prezzi, la creazione della banca universale in luogo della vecchia separazione tra banche di investimento e banche d’affari (separazione in vigore dal 1936 al 1993, anno di entrata in vigore della Testo Unico Bancario, che a sua volta recepiva relative direttive comunitarie), la flessibilizzazione del mercato del lavoro (espressione edulcorata per non pronunciare la parola precarizzazione), insieme alle facilitazioni del credito (estero) al consumo mediante bassi tassi di interesse, hanno dato forma a un nuovo modello che poteva tendere ai veri e inconfessati obiettivi degli architetti dell’UE: la massimizzazione dei profitti nel settore finanziario, la diminuzione dei redditi da lavoro tutti, e l’erosione del risparmio privato.

L’economista argentino Roberto Frenkel ha spiegato in sette semplici passaggi (in un link in fondo all’articolo) il meccanismo che ha indotto l’esplosione della crisi nei paesi ad inflazione relativamente più alta rispetto ai paesi creditori.

In passato come era assicurata la tutela del risparmio in Italia – ricordiamolo - prima nazione al mondo per risparmio privato?

Oltre alle ben note lotte di rivendicazione salariale, abbiamo avuto l’equo canone per contenere le rendite degli immobili in affitto; la scala mobile (progressivamente smantellata a partire dal 1985 e poi abrogata nel 1992 dal governo Amato); i minimi tariffari e le licenze per il commercio per proteggere professionisti e commercianti da quella stessa concorrenza oggi elevata a feticcio dell’Unione Europea; un sistema di ridistribuzione della ricchezza (sotto forma di incremento dello stato sociale e di investimenti produttivi) basato su un regime di repressione finanziaria in vigore fino agli anni ’70; un sistema di partecipazioni azionarie dello stato in società private; la possibilità per il Tesoro di usufruire di uno scoperto di conto corrente presso la Banca d’Italia, per anticipi fino al 15% sul bilancio di competenza (oggi tale pratica è espressamente vietata dall’UE). Non esistevano vincoli al deficit pubblico, né all’inflazione, né al debito pubblico. Lo stato sceglieva i settori strategici nei quali investire, operando ove necessario in regime di monopolio (Cost., art. 43).

La cancellazione di questo complesso sistema di organizzazione dei rapporti economici, che mirava a piegare l’azione del mercato ai fini dell’utilità sociale (Cost., art. 41), ha determinato la progressiva erosione dei diritti fondamentali sanciti dalla Carta Costituzionale.

Gli incauti sognatori del sogno europeo ci hanno regalato questi frutti. Ai cittadini vittime di questo sistema non resta che un’unica opzione: una diffusa rinascita dell’azione politica organizzata “dal basso”. Europa delenda est.


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In questa rubrica collaborano:
Fiorenzo Fraioli
Gianluigi Leone ars.regionelazio@gmail.com
 
 
 
 
 
 










 

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