Il nostro sistema finanziario, prima della sua progressiva
“germanizzazione”, era basato (per
vincolo costituzionale!) sulla tutela del risparmio. L’articolo 47 della
Legge fondamentale dello Stato recita infatti: “La Repubblica incoraggia e
tutela il risparmio in tutte le sue
forme; disciplina, coordina e controlla
l'esercizio del credito. Favorisce
l'accesso del risparmio popolare alla proprietà dell'abitazione, alla
proprietà diretta coltivatrice e al
diretto e indiretto investimento azionario nei grandi
complessi produttivi del Paese.” Si legge: “accesso
del risparmio popolare (cioè dei cittadini italiani, ndr)
alla proprietà dell’abitazione… e
all’investimento nei grandi complessi produttivi” proprio perché l’obiettivo
è la stabilità delle famiglie (non dei conti pubblici!) e la tutela del lavoro.
Con la rivoluzione liberista-europeista cambia clamorosamente,
e senza alcuna discussione democratica, ogni paradigma in ambito
economico-finanziario.
Cominciano negli anni ottanta radicali ristrutturazioni e
successive liberalizzazioni del settore bancario all’insegna del principio della
concorrenza bancaria. I capitoli
scritti in questa direzione hanno sancito la progressiva riduzione della
presenza pubblica nella proprietà delle banche italiane, con la solita scusa
dell’integrazione dei mercati. Gli atti più significativi di questa rivoluzione
sono rappresentati dalle liberalizzazioni dei movimenti di capitali (recepimento
delle Direttive 566/1986 e
361/1988), dalla
Legge 287/1990, a tutela della concorrenza bancaria, e dalla
Legge 218/1990 (Legge Amato-Carli), che convertì le banche italiane
da istituti di diritto pubblico in S.p.A..
Giova precisare che in precedenza il sistema bancario italiano
era quasi interamente pubblico.
Il grafico in basso (tratto dall’”Annuario 1983”, Rizzoli
Editore, Milano, 1983, pag. 220) fotografa la situazione nel 1982.
Le riforme citate ponevano le basi per l’attuazione di alcuni
principi normativi successivamente fissati nel
Trattato di Maastricht (e quindi divenuti preminenti rispetto a
qualunque norma contraria, anche di rango costituzionale, in base al
principio di preferenza):
l’introduzione di un (inedito per l’Italia)
regime di concorrenza in ogni ambito e settore dell’attività economica e
finanziaria; e la libera circolazione
di capitali, merci, servizi e persone in ambito comunitario (ed
extracomunitario per quanto riguarda i trasferimenti di capitali).
È utile ricordare che in Italia, come in altri paesi, negli
anni ’70, l’esportazione (o importazione) non autorizzata di capitali era
considerata un illecito perseguibile penalmente. Le norme di riferimento erano
contenute nella Legge 25 luglio 1956, n.
786 (in vigore fino al 1990).
Infine, la
fallimentare
istituzione di una moneta unica e di
una banca centrale europea che avesse
come fine dichiarato la stabilità dei
prezzi, la creazione della banca
universale in luogo della vecchia separazione tra banche di investimento e
banche d’affari (separazione in vigore dal 1936 al 1993, anno di entrata in
vigore della
Testo
Unico Bancario, che a sua volta recepiva relative direttive comunitarie), la
flessibilizzazione del mercato del lavoro (espressione edulcorata per non
pronunciare la parola precarizzazione),
insieme alle facilitazioni del credito (estero)
al consumo mediante bassi tassi di
interesse, hanno dato forma a un nuovo modello che poteva tendere ai veri e
inconfessati obiettivi degli architetti dell’UE: la massimizzazione dei profitti
nel settore finanziario, la diminuzione dei redditi da lavoro tutti, e
l’erosione del risparmio privato.
L’economista argentino Roberto Frenkel ha spiegato in
sette
semplici passaggi (in un link in
fondo all’articolo) il meccanismo che ha indotto l’esplosione della crisi
nei paesi ad inflazione relativamente più alta rispetto ai paesi creditori.
In passato come era assicurata la tutela del risparmio in
Italia – ricordiamolo - prima nazione al
mondo per risparmio privato?
Oltre alle ben note
lotte di rivendicazione salariale, abbiamo avuto
l’equo canone per contenere le rendite degli immobili in affitto; la
scala mobile (progressivamente
smantellata a partire dal 1985 e poi abrogata nel 1992 dal governo Amato); i
minimi tariffari e le
licenze per il commercio per
proteggere professionisti e commercianti da quella stessa concorrenza oggi
elevata a feticcio dell’Unione
Europea; un sistema di ridistribuzione della ricchezza (sotto forma di
incremento dello stato sociale e di investimenti produttivi) basato su un
regime di repressione finanziaria
in vigore fino agli anni ’70; un sistema di
partecipazioni azionarie dello stato
in società private; la possibilità per il Tesoro di usufruire di uno
scoperto di conto corrente presso la
Banca d’Italia, per anticipi fino al 15% sul bilancio di competenza (oggi
tale pratica è espressamente vietata dall’UE).
Non esistevano vincoli al deficit
pubblico, né all’inflazione, né al debito pubblico. Lo stato sceglieva i settori
strategici nei quali investire, operando ove necessario in regime di
monopolio (Cost., art. 43).
La cancellazione di
questo complesso sistema di organizzazione dei rapporti economici, che mirava a
piegare l’azione del mercato ai fini dell’utilità sociale (Cost.,
art. 41), ha determinato la progressiva erosione dei diritti fondamentali
sanciti dalla Carta Costituzionale.
Gli incauti sognatori del
sogno europeo ci hanno regalato questi
frutti. Ai cittadini vittime di questo sistema non resta che un’unica opzione:
una diffusa rinascita dell’azione politica organizzata “dal basso”. Europa
delenda est.
|